Un mondo di improvvisazione

Un mondo di improvvisazione

Il termine “improvvisazione” potrebbe dare adito a diverse interpretazioni. In genere l’accezione comune del termine ci fa pensare ad una vera e propria creazione senza alcun fondamento e nessuna regola. Di fatto la vera “Improvvisazione” in campo artistico (non solo in quello musicale) consiste nel mettere insieme le norme naturali che regolano l’Arte in maniera creativa ed in taluni casi originale. Tutto ciò può avvenire o per mera casualità, o per assoluto talento dell’artista, o grazie alla profonda conoscenza dell’artista stesso circa la disciplina da lui praticata.

In campo musicale l’Improvvisazione è il vero sinonimo della composizione. Prescindendo dalla forme compositive di un brano (sonata, fuga, suite, canzone in genere, concerto, ecc.), in termini assolutamente sostanziali, la composizione di una melodia attiene alla sfera del gusto musicale proprio dell’artista che a sua volta si affida anche alla scientificità delle regole armoniche e compositive già, da sempre, presenti in natura.

Questo significa che in musica non si inventa nulla, bensì si scopre. Ed è proprio in virtù di questo principio che la musica nei tempi si è evoluta. Nessuno hai mai inventato, ma tanti hanno scoperto.

Come tutte quelle materie che appartengono alla sfera del razionale, l’armonia e la composizione possono diventare tuttavia Arte solo se si riesce ad interagire filosoficamente, speculativamente con loro, laddove ogni spostamento, ogni relazione, nonostante rigorosamente matematica e razionale, diventa “invenzione” non inventata…. diventa Arte.

Quest’azione di tipo speculativo ed empirico al tempo stesso, ha prodotto un enorme repertorio musicale ancora oggi suonato che, attraverso la sua analisi, ha permesso negli ultimi 100 anni di comprendere le regole principali che governano la musica e pertanto la composizione.

Un momento di improvvisazione: Johnny O’Neal e Giovanni Mazzarino (piano), Luke Sellick (contrabbasso) e Charles Goold (batteria)
(Ph. Paolo Galletta)

Anche se in passato l’improvvisazione è stata materia praticata dai “musicisti geni” dell’epoca (Mozart, Bach, Chopin, ecc.), in  quanto loro, prima di altri, in maniera estemporanea, avevano ben compreso il rapporto tra melodia ed armonia, la “prassi artistica di tipo compositivo”, tuttavia , era quella  di scrivere il tutto su pentagramma al fine di tramandare ai posteri la loro eccellente attività musicale – compositiva. Ma i grandi musicisti del passato conoscevano le regole della composizione anche se forse non le avevano mai studiate; ed è proprio in considerazione dell’analisi musicale delle loro opere che si sono create le “regole”. Regole, semplicemente scoperte e sperimentate, ma già esistenti in natura.

Sulla base di queste considerazioni, all’inizio del XX° secolo, vista anche la grande possibilità di comunicazione intellettuale ed artistica tra le popolazioni del mondo (sicuramente maggiore rispetto a quella del passato),  si è ritenuto proporre un nuovo modo di fare e comporre musica. Di fatto di nuovo non c’era nulla. Ma sicuramente si vuole da adesso in poi dare maggiore importanza alla figura del compositore in luogo di quella dell’esecutore. L’esecutore (strumentista) doveva solo eseguire la grande musica, scritta da altrettanti grandi musicisti; questo risultava  non essere più sufficiente per essere “denominato musicista”. Il compositore (il musicista, non solo lo strumentista) doveva d’ora innanzi scoprire nuove regole, speculando ed approfondendo lo studio delle opere dei grandi musicisti del passato e pertanto “inventando” nuovi linguaggi ed estetiche che hanno prodotto la cosiddetta  estemporaneità compositiva (improvvisazione). Questo significava che, vista la profonda ed acquisita qualità conoscitiva della musica e delle sue regole, non ci sarebbe stato più bisogno di scrivere in maniera dettagliata su pentagramma, ad esempio, la parte armonica (la mano sinistra del pianista per intenderci), bastava da adesso in poi scrivere semplici sigle per comunicare l’armonia di una composizione. La melodia rimaneva identica: elemento discriminante e determinante di una composizione.  In realtà lo era anche prima, ma da adesso in poi il tutto avrebbe assunto una modalità relativa alle conoscenze musicali, più o meno profonde, dell’esecutore – musicista. Da quel momento in poi una composizione suonata da un strumentista o da un altro, sarebbe stata uguale per quanto concerne la melodia, ma profondamente diversa da un punto di vista armonico. Ecco che l’esecutore – strumentista, lascia sempre più spazio al musicista – compositore.

La grande possibilità di gestione armonica di un brano permise anche  il cambiamento della melodia stessa, sia pure in minima parte. Questo avveniva in considerazione dell’estro e della creatività del musicista che automaticamente interagiva con il compositore originale, creando nuove melodie e legami armonici, derivanti dalle diverse soluzioni armoniche  adottate. Tutto ciò avveniva sempre più spesso, quasi come gioco, in via del tutto estemporanea. Il  nuovo musicista – esecutore e compositore, improvvisa soluzioni armoniche differenti, cambiando o mantenendo la melodia originale, sulla base di regole ferree che i grandi compositori del passato adottavano, ma che gli stessi per esigenza comunicativa della loro poetica artistica, erano costretti a scegliere una e sola  soluzione di tipo melodica – armonica  che andava fissata su di un pentagramma, non in quanto l’unica possibile, ma in quanto maggiormente esteticamente congeniale, in quel momento, a loro stessi.

Mozart è stato l’esempio vivente del musicista – esecutore – compositore. Pertanto in tempi non sospetti, l’improvvisazione intesa come possibilità di cambiamento della melodia e dell’armonia in maniera estemporanea, intesa quindi come valida alternativa alla composizione tradizionale ma non diversa da essa, era già praticata. Sulla base di queste considerazioni, il compositore è un “improvvisatore al rallentatore”. Entrambi utilizzano le regole armoniche che governano la musica, l’uno “a tavolino”, l’altro direttamente “in concerto”.

Lo studio dell’improvvisazione è quindi lo studio della composizione intesa non già in relazione alla semplice o complessa “forma” compositiva, ma come costruzione di melodie sulla base di una progressione data di accordi. Questa materia pertanto si occuperà di come una o più note possano essere compatibili con gli accordi, quali note saranno le più efficaci, la loro disposizione  ritmica.

Questo meccanismo può essere applicato a tutta la musica, in quanto quest’ultima è una e sola, governata dalle medesime leggi. È evidente che le varie estetiche musicali pretenderanno linguaggi improvvisativi diversi tra loro, ma sempre fondati su i medesimi principi armonici, applicati e congegnati in maniera ritmica diversa.

Let’s Start From Here, il sorprendente punto di partenza di Paolo Corsini

Let’s Start From Here, il sorprendente punto di partenza di Paolo Corsini

È uscito recentemente per Jazzy Records, accompagnato da un evocativo videoclip ambientato fra stazioni e aeroporti e realizzato dalla stessa etichetta, l’album del pianista e compositore veneto Paolo Corsini dal titolo “Let’s Start From Here”. “Cominciamo da qui”  non è solo una affermazione, ma quasi un monito ad indicare il costante divenire della musica e della vita.  Compagni di viaggio di Corsini sono il contrabbassista Alessandro Turchet e Luca Colussi, ritmica che brilla per intensità e leggerezza, a proprio agio con il senso delle estetiche Jazz tradizionali, ma guidata da un’ispirazione assolutamente contemporanea. Alessandro Turchet è quasi un alter ego del leader in ambito musicale, un musicista con cui ha condiviso e affinato il percorso di crescita e che in Let’s Start From Here sfocia in una apprezzabilissima sintesi.

Con Luca Colussi ed il suo stile raffinato e viscerale il cerchio si chiude: tre voci distinte che si intrecciano in una unica intenzione corale. La collaborazione come trio si consolida ufficialmente nel 2016, praticando molto la musica di Bill Evans e con la costruzione di un repertorio originale.  Nel 2020 dalla stessa sessione di registrazione vengono alla luce “Segni” a nome e con musica originale di Luca Colussi e “Let’s Start From Here”. Le composizioni contenutene disco sono state scritte in un periodo che va dalla fine degli anni ’90 ad oggi e vi si trovano tutti i rimandi a diverse estetiche delle quali il leader porta la forte influenza e con le quali si è consolidato il sue stile. Comuni’Arti ha incontrato Paolo per approfondire alcuni aspetti di questo lavoro davvero interessante.

Let’s Start From Here evoca un punto di partenza, ma tu non sei un musicista esordiente nel vero senso della parola. Parlaci delle esperienze che più ti hanno formato e che hanno contribuito alla nascita di questo tuo nuovo e interessantissimo lavoro.

L’esperienza più importante è stata avere delle persone intorno a me che mi hanno fatto diventare un musicista. A cominciare da Bruno Cesselli il mio mentore e grande amico che mi ha trasmesso l’amore incondizionato per la musica e poi tutto il circondario di musicisti ed artisti con il quale sono cresciuto e con i quali ho avuto la fortuna di lavorare.

Con Federico Missio ed io ancora “acerbo”, abbiamo condiviso nel 2007 una interessante esperienza discografica nella quale era presente anche Massimo Manzi. Si è creata una bella amicizia che dura tutt’ora tra me e Federico e che ogni tanto ci fa incontrare nuovamente, com’ è successo nel 2014 con l’organico allargato della “Scimmia Nuda” a Udine.

Ho avuto la possibilità di suonare stabilmente per un paio di anni nella Abbey Town Jazz Orchestra, diretta da Kyle Gregory, ho potuto saggiare l’aspetto da musicista “gregario” in un contesto di big band, altamente edificante.

Con Gandhi (Umberto Trombetta) ed i “Fearless Five” esplorammo il mondo della musica di Miles Davis “elettrico” e Joe Zawinul, devo dire in maniera entusiasmante.

Poi ho finalmente incontrato Anna Maria Dalla Valle, grazie a lei ho sviluppato come non avrei mai pensato la mia percezione artistica.

Abbiamo inciso in duo nel 2012 ed è stata un esperienza dalla quale ho imparato moltissime cose riguardo all’interazione, ed al dialogo con un altro musicista.

Arrivò poi il frangente con “Astral Travel” insieme a Tommaso Cappellato, un viaggio nel cosiddetto “spiritual jazz”, anche qui un lavoro in dimensioni molto ampie e più contemporanee.

Infine sempre insieme ad Anna Maria abbiamo sviluppato una nostra passione comune per l’ambito elettronico della drum ’n bass e dei frangenti elettronici inerenti.

Insieme a Dj Enjoy formammo questo trio ibrido “Squirrel Beats” nel quale mescoliamo gli strumenti con l’elettronica pura. In seguito la formazione è divenuta un quartetto solo strumentale con l’adozione però di un linguaggio che può essere più proprio delle “macchine” elettroniche.

Tutte queste esperienze hanno tracciato una via lungo la quale mi sono calato in stili molto differenti tra loro, dal carattere più acustico del solo pianoforte per poi abbracciare pienamente anche tutti i suoi “fratelli” elettrici, come il Rhodes ed i Synth. Sono molto appassionato dalla produzione in questo ambito, ed allo stesso modo dalla dimensione più acustica.

Alessandro Turchet e Luca Colussi, i membri del tuo trio, sono considerati “giovani jazzisti”, ma in realtà già da tempo inseriti nella scena italiana e mitteleuropea; sono artisti preparati, di grande sensibilità e legati a te anche da una grande amicizia. Che cosa apprezzi maggiormente nel loro modo di suonare, qual è il vero apporto che hanno dato alla tua musica?

Quello che apprezzo in Alessandro e Luca è il loro modo di suonare sincero, appassionato, viscerale e per niente artefatto. Hanno una visione artistica molto ben chiara che non lascia spazio ad inutili chiacchiere ed a autoreferenzialità.

Lavorare al repertorio del disco con loro è stato un processo produttivo, non si sono mai comportati da cosiddetti “sideman” facendo ciò che gli veniva richiesto, anche perché non è mai stata mia intenzione farlo. Abbiamo cercato di “indossare” ogni brano e chiunque dei tre ha suggerito modifiche o cambi di direzione qualora ne avvertisse la necessità. Diciamo che non si sono limitati ad eseguire una partitura data loro ma vi ci sono addentrati per renderla propria, così come farebbe un artista degno di questo nome. Ho una stima smisurata nei loro confronti e li ringrazio di cuore per il risultato ottenuto in questa incisione.

L’album è pervaso da un’estetica musicale dalla forte connotazione europea, con influenze ritmiche variegate che afferiscono anche ad esperienze più contemporanee e non strettamente Jazz. I brani, pur strutturati, non sembrano caratterizzati da arrangiamenti particolarmente “scritti”: avevi in mente questo tipo di sound quando sei entrato in studio, o è stato il frutto del “momento creativo” che si è sviluppato insieme ai tuoi compagni in sala d’incisione?

A dire la verità tutto il corpus dei brani è accuratamente intriso di scrittura ed arrangiamento, però la volontà è stata quella di non rendere questa caratteristica così evidente e men che meno pesante all’ascolto. Questo risultato è risultato possibile grazie al modo in cui tutti e tre abbiamo digerito ed interpretato il materiale, in modo da utilizzare estemporaneamente gli elementi presenti in una composizione non come dei percorsi rigidamente prestabiliti ma come dei tracciati sui quali potersi muovere il più liberamente possibile.

La Jazzy Records ha realizzato un videoclip particolare per il brano “By The Way”, che evoca scenari metropolitani, viaggi,  emozioni di “transfer” fisico ed emotivo, incontri e sentimenti in transito. Anche la tua scrittura è molto cinematografica. Il cinema è una tua passione? Quali sono i tuoi interessi oltre alla musica?

La cosa che più mi affascina è la dimensione immaginifica che nel cinema è tecnicamente effettiva mentre nella musica viene evocata dai suoni.

L’ascolto della musica mi porta sempre in una dimensione quasi cinematografica nella quale si susseguono scenari, sensazioni ed emozioni. Si il cinema mi appassiona, soprattutto se capitano delle pellicole che oltre a raccontare una storia tendono a portarmi ad una riflessione o all’esplorazione ed alla scoperta di ambiti intriganti. Anche tutto l’ambito documentaristico mi appassiona, soprattutto se incentrato sulla storia contemporanea e sulla scienza.

In ambito scientifico sono estremamente attratto dalle teorie rivoluzionarie dell’ultimo secolo come la meccanica quantistica. Oltre a questo una mia grandissima passione è la speleologia, amo le grotte e tutto quello che le circonda, il contesto ambientale, l’attività, l’esplorazione, è un mondo parallelo bellissimo e sconvolgente.

Ammetto che la speleologia mi ha fatto crescere dal punto di vista umano e filosofico.

Nel gennaio scorso la rivista Musica Jazz ha, come da tradizione, pubblicato i risultati del Top Jazz 2020. Che cosa pensi in generale delle scelte operate dai critici che hanno votato? Secondo te offrono un panorama “corretto” del “meglio” che il Jazz italiano offre oggi? 

Ammetto che non seguo in maniera ossessiva i risultati della classifica top jazz, mi incuriosiscono sicuramente ma non gli do un grosso peso, non per arroganza di certo, penso che riguardino solo una parte di ciò che succede nel nostro paese e che ci sia un grossissimo sommerso di artisti che per un motivo o per l’altro non arrivano alle nostre orecchie.

È anche vero che la classifica viene redatta da un corpus di critici che di sicuro hanno dei gusti e delle preferenze, mi piacerebbe tanto che la valutazione fosse estesa in qualche modo anche al reale pubblico degli ascoltatori del Jazz.

Indubbiamente gli artisti che compaiono nella classifica Top Jazz sono dei musicisti di calibro estremamente elevato, penso comunque che il panorama del Jazz italiano offra molto di più di quanto vi sia redatto, ed essendo già estremamente di valore quello che vi compare non oso immaginare quanti altri meravigliosi artisti siano presenti sul suolo nazionale.

Cosa pensi dell’idea del Ministro della Cultura Franceschini di creare una sorta di “Netflix “ della cultura? Dove ci sta portando questa pandemia dal punto di vista dello spettacolo e del rapporto del pubblico con lo spettacolo dal vivo? Hai avuto esperienze concertistiche in streaming senza pubblico e se sì, quali emozioni e sensazioni hai vissuto?

Per quanto il nostro Paese sia straordinario dal punto di vista della percezione della cultura ci troviamo in un bel crepuscolo per tante motivazioni.

Sarebbe molto bello se diventasse invece un motore alla base della nostra società, così come dovrebbe essere a mio avviso. Solo il concetto di definire una “utilità” della cultura è sbagliato, perché vuol dire che dal punto di vista sociale vengono percepite delle altre necessità prima di questa e nella maggior parte dei casi provengono da logiche “produttive”.

Dovrebbe essere esattamente il contrario, la cultura e la conoscenza è il requisito base sul quale costruire tutto il resto, inclusa la concezione più materiale ed operativa.

Indipendentemente dalla mansione svolta da ogni esser umano la prima necessità dovrebbe essere quella di nutrirsi ed arricchirsi di conoscenza, così da diventare una vera e propria persona intraprendendo il proprio percorso.

Non conosco dettagliatamente l’iniziativa di Franceschini, ammetto che sicuramente è interessante dal punto di vista divulgativo ma non ho la certezza che possa diventare un canale realmente trasparente nel quale vi sia spazio adeguato a tutte le innumerevoli realtà presenti nel nostro paese.

Soffriamo per altro di una mentalità estremamente provinciale e dedita al clientelismo, sarebbe bello se un mezzo del genere ne fosse esente, ma da quanto è radicata temo sia impossibile.

Questa pandemia ci sta sufficientemente demolendo dal punto di vista sociale e psicologico. È lodevole ricorrere allo streaming o alla “somministrazione a distanza” di concerti o eventi artistici, questo però è solo un succedaneo e non può restituire quella che è una esperienza dal vivo.

C’è bisogno di avere un rapporto tra l’artista ed il pubblico, non può essere altrimenti, un musicista non esiste se non c’è qualcuno che lo ascolta però questo non può ridursi ad un ascolto sterile da un dispositivo, c’è la necessità di interagire con le altre persone, siamo fatti di questo.

Quest’anno ho avuto una esperienza durante la quale ho suonato con un pubblico risicato mentre veniva trasmesso il concerto in streaming, ammetto che la mia attenzione andava alle persone presenti, non per mancanza di rispetto ma perché ne avvertivo l’effettiva presenza e l’interazione, quello che ho suonato e come è dipeso da chi c’era ad ascoltarmi.

Oltre all’insegnamento, a cui ti dedichi da anni, a quali progetti stai lavorando?

Attualmente sto lavorando a “Squirrel Beats” come già menzionato prima, diciamo che è un progetto ambizioso ma estremamente gustoso per me.

È un cross over in termini di linguaggio, la volontà ambiziosa è quella di coniugare nello stile e nelle forme contemporanee quelle più strettamente jazzistiche.

È una situazione che potrebbe avere un respiro molto ampio anche a livello internazionale, sto lavorando nella ricerca dei giusti canali di promozione.

Sempre in questo ambito mi sto interessando alla produzione in proprio, cosa che ho sempre fatto per piacere personale ma che vorrei portare ad un livello professionale.

Il CD di Paolo Corsini è disponibile su www.jazzy-records.com